Il caso del Sud Sudan

Il Sud Sudan, ultimo nato tra gli Stati Africani, ha raggiunto l’indipendenza nel 2011 dopo una guerra durata oltre venti anni, culminata con la firma dei negoziati di pace con il Governo del Sudan. Dal 2013 tuttavia, lo Stato è lacerato da una guerra civile ed è pertanto quotidianamente dilaniato da battaglie per il controllo del territorio. Il Paese soffre una grave e cronica instabilità interna dal punto di vista politico, economico, umanitario e militare: i conflitti civili hanno minato i seppur minimi progressi economici e sociali che erano stati raggiunti dallo Stato. Malgrado l’accordo di cessate il fuoco firmato nel 2018 tra il nuovo Presidente Salva Kiir Mayardit ed il capo dei ribelli, nonché ex Presidente, Riek Machar, rapimenti, violenze, stupri di gruppo ed esecuzioni sommarie proseguono aggravando la situazione umanitaria di milioni di persone. I motivi alla base della guerra civile risiedono principalmente nella suddivisione del potere governativo e delle cariche politiche, e nella difficoltà per la popolazione di accedere al cibo e ai mezzi di sussistenza. Secondo Adama Dieng, Consigliere Speciale delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi, tuttavia, non si tratterebbe più solo di contrasti etnici, ma piuttosto di gruppi di potere locali che combattono per il controllo del petrolio. Dopo anni di conflitto civile si stima che circa 4,5 milioni di persone abbiano lasciato le proprie case per cercare rifugio in zone più sicure del Paese o negli Stati limitrofi. Sono circa 2 milioni gli sfollati interni mentre 2.5 milioni di persone hanno abbandonato il Paese rifugiandosi in Uganda, Sudan ed Etiopia. I rischi cui la popolazione locale è esposta, come diretta   conseguenza del conflitto armato, sono un generale aumento delle violenze e degli abusi, lo sfruttamento sessuale ed il reclutamento, soprattutto di giovani, da parte delle milizie armate. A risentire dell’instabile situazione politica è anche l’economia: con lo scoppio della guerra civile la produzione di petrolio è diminuita ed è esponenzialmente aumentato il numero di persone che vivono in condizione di estrema vulnerabilità economica. Tra Ottobre e Novembre 2020 circa 4,1 milioni di Sud-sudanesi si trovavano nella Fase 3 della Integrated Food Security Phase Classification (IPC), 2 milioni nella fase 4 e circa 92 mila nella Fase 5 (ove 5 rappresenta il massimo grado di insicurezza alimentare). Le cause principali della malnutrizione – oltre che da conflitti persistenti – derivano dalla inadeguatezza delle strutture pubbliche; da condizioni economiche precarie e dal mancato accesso ad aiuti umanitari in zone remote del Paese. Inoltre, la diffusione di malattie e virus ha comportato la perdita di grandi quantità di bestiame e compromesso i raccolti con ripercussioni dirette sulle economie familiari. Si stima che ogni anno venga prodotto circa il 40% in meno di raccolto per mancanza di manodopera causata dai grandi flussi migratori, sia interni che verso l’esterno, dalla distruzione delle attività agricole e dalla interruzione dei flussi commerciali. Non solo gli scontri armati hanno inciso sulla economia agricola ma hanno altresì privato la popolazione dell’accesso all’acqua potabile, esponendo milioni di persone al rischio di malattie, in particolare il colera, causato appunto dall’utilizzo di acqua contaminata.

Il Consiglio per i Diritti Umani ha istituito il 23 marzo 2016 la Commissione per i Diritti Umani nel Sud Sudan per la durata di un anno, prorogandone successivamente il mandato – fino all’ultima conferma a Marzo 2021 – con la risoluzione 46/23. Funzione della Commissione è di riferire fatti e circostanze, raccogliere e conservare prove al fine di chiarire le responsabilità delle gravi violazioni e abusi dei Diritti Umani e dei crimini perpetrati nel Paese, comprese la violenza sessuale e di genere e la violenza etnica, in maniera da porre fine all’impunità. Nel 2021, la Commissione ha documentato 3.414 vittime civili direttamente colpite dalla violenza: uomini, donne, bambini; uccisi, feriti, rapiti o sottoposti a violenza sessuale legata al conflitto; nello stesso anno l’ufficio UNMISS ha riferito circa l’uso della violenza sessuale, nel contesto della violenza localizzata, come arma per punire i gruppi rivali. I membri della Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nel Sud Sudan hanno svolto – dal 7 al 12 febbraio 2022 – la nona visita nel Paese e redatto un report che copre il periodo da Gennaio a Dicembre 2021, che illustra nel dettaglio le principali sfide in materia di Diritti Umani che il Paese si trova ad affrontare, in maniera particolare per quanto riguarda i diritti delle donne e delle bambine. La violenza tra le comunità autoctone sembra essere innescata da pratiche di lunga data di razzia del bestiame e attacchi mossi dalla vendetta, favorita dal dilagare di armi piccole e leggere. Nonostante la conclusione di un accordo di pace tra le comunità in conflitto sancito il 27 Ottobre 2021, le tensioni permangono alte e gli attacchi frequenti. Gli incidenti documentati dalla Commissione per i Diritti Umani nel Sud Sudan enumerano assassinii, ferimenti, stupri e altre forme di violenza sessuale, rapimenti, spostamenti forzati, detenzioni arbitrarie e saccheggi. La situazione umanitaria rimane oltremodo allarmante, anche in considerazione delle emergenze legate al cambiamento climatico che continuano a causare spostamenti di massa, sottoponendo in modo esponenziale donne e ragazze al rischio di violazioni. Quasi 80.000 civili sono stati sfollati a causa delle violenze a Tambura, fattore che ne ha limitato ulteriormente i diritti socioeconomici quali il diritto al cibo, alla salute, all’istruzione e all’alloggio. Le condizioni idriche, sanitarie e igieniche sono progressivamente e inevitabilmente peggiorate.

Ogni giorno, nel mondo, si combattono numerosi conflitti: l’odio e la violenza e parrebbero essere intrinsechi nella natura umana, mostrandone il suo volto peggiore. La disumanità della guerra coinvolge non più solo i soldati e gli eserciti, ma sgretola il tessuto civile e sociale di una comunità o un Paese nella loro interezza, lasciando impronte imperiture ed indelebili nella coscienza comune e nelle pagine di storia chiamate a documentarne l’orrore. I numerosi conflitti e le tante guerre dimenticate di oggi evidenziano quanto l’umanità sia gravata dal peso dell’odio e della violenza. Troppo spesso, come il caso del Sud Sudan, anche dopo la fine della guerra propriamente detta e combattuta, i conflitti tra fazioni proseguono; e anche nel caso in cui ciò non accada, le conseguenze che la stessa ha creato e alimentato, impediscono alla popolazione locale di ricostruire una nuova normalità. La guerra continua, anche dopo la fine della guerra stessa, più silenziosa alle orecchie di chi non presta orecchio, a volte latente, altre più rumorosa. Esiste e continua a minare profondamente la vita delle popolazioni coinvolte e ad impedirne il pieno godimento dei Diritti. E il Sud Sudan è solo uno degli esempi possibili. Come l’Afghanistan. La Siria. Lo Yemen. La Somalia. La Libia. La Nigeria. Guerre che non possiamo ignorare: non dimentichiamone nessuna, facciamo luce su ciascuna. Non dimentichiamo le popolazioni civili che, vivendo in territori di guerra, ne subiscono le drammatiche conseguenze a causa del disegno dei detentori del potere e di interessi politici ed economici. Anche ove non si possa contribuire attivamente al loro benessere, la memoria storica è nostro dovere di esseri umani.

“Se uno di noi, uno qualsiasi di noi esseri umani, sta in questo momento soffrendo,
è malato o ha fame, è cosa che ci riguarda tutti. Ci deve riguardare tutti,
perché ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza,
e tra i più vigliacchi.”

Gino Strada
Buskashì. Viaggio dentro la guerra

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