La grande scritta “Fratelli – الإخوة” campeggia sul piazzale antistante l’edificio, salutando con calore i nuovi arrivati. Siamo a Rmeyleh, a una trentina di chilometri dall’areoporto di Beirut, dove abbiamo trovato ad accoglierci fratel Miquel. È buio, ma la penombra lascia intravedere l’imponente stabile di cemento che l’indomani impareremo a conoscere. Piccola delegazione FMSI arrivata da Roma, tra noi c’è Marzia Ventimiglia, direttore generale della Fondazione, fratel Álvaro Sepúlveda Child Rights Advocacy Officer, Federica De Benedittis responsabile fundraising e la sottoscritta, che con FMSI collabora sul fronte comunicazione. Con il gruppo c’è anche Francesca Sironi, cronista dell’Espresso venuta per raccontare la vita dei profughi siriani in Libano ad un passo dal confine.
Dopo una cena a base di falafel, racconti e ragguagli generosamente forniti da Miquel (nostro Virgilio nonché colonna portante del “progetto Fratelli”), andiamo a dormire aspettando la luce, impazienti di vedere quel mondo approcciato nell’oscurità. Tra un canto del muezzin di lontano e l’eco di qualche colpo di arma da fuoco, la notte trascorre lenta.
La luce del mattino svela un incredibile paesaggio sul lungomare di Sidone (Saida). Sara e Laura, le due giovani volontarie della casa, una spagnola e l’altra messicana di stanza a Rmeyleh per un anno, ci accompagnano a visitare l’edificio: oltre all’ala ristrutturata negli ultimi due anni, scopriamo un’area vasta abbandonata e sfregiata dai segni della guerra. Scuola marista fino agli anni Ottanta, al tempo frequentata anche da personalità come Hariri, fu occupata dal 1985 in poi dalle milizie dei vari conflitti. All’interno, oltre a calcinacci, lavagne verdi, vetri rotti e sporcizia, una camera delle torture. L’immaginazione e la Storia, ci danno gli altri elementi per ricostruire la vita di quel luogo. Usciamo a respirare.
Accanto alle altalene, una lunga recinzione di filo spinato ci divide da un’altra ala, occupata ancora oggi dall’esercito nazionale, convivenza forzata che invece di dare sicurezza, rende quel luogo ancora più insicuro. Camminando lungo il patio, Miquel ci indica i piccoli passi avanti compiuti letteralmente dal 2015 a oggi, per riconquistare fazzoletti di terra, strappandoli alle milizie e alle sterpaglie. Un’esondazione buona e lenta, che il determinato Fratel Miquel porta avanti giorno dopo giorno: “prima arrivavamo qui”… due passi avanti e “poi qui”… altri due passi in avanti e … oggi “siamo arrivati qui”. Il “Progetto Fratelli” vede impegnati sin dal principio, fianco a fianco, fratelli Maristi e Lasalliani: una collaborazione che ha dato frutti straordinari, come dimostra ciò che si presenta di fronte ai nostri occhi.
Torniamo all’area ristrutturata, è l’ora. Il frastuono gioioso dei bambini rompe il silenzio del luogo. I pulmini carichi di vita arrivano poco dopo le otto: questi veicoli sono mezzo indispensabile per accompagnare i bambini da casa (campi, shelter o altro) fino a scuola; se non ci fossero, la maggior parte di loro non potrebbe arrivare a Rmeyleh. Le attività si alternano tra “doposcuola”, “prescuola”, “supporto alla scuola” o – ancora – “summer school”. Non una scuola vera e propria: il governo libanese ha infatti stabilito che l’istruzione per i bambini profughi sia unica prerogativa del pubblico, oggetto di copiosi finanziamenti internazionali. Quindi il progetto Fratelli si occupa di tutte le possibili attività didattiche extra scolastiche, dai corsi di inglese e informatica per bambini e ragazzi, ai corsi di cucito per le loro mamme. Momenti preziosi di serenità e inclusione vera, che portano quei giovani fuori dalla vita difficile dei campi e dalla memoria costante dell’orrore del conflitto.
Oltre 300 tra bambini e ragazzi dai 3 ai 14 anni, tra siriani, palestinesi e libanesi “pobres o empobrecidos o sin papeles” ci spiega Miquel. In quel luogo, la commistione e l’integrazione tra culture, religioni e nazionalità è potente, a partire dalle insegnanti, per lo più giovani libanesi.
Fuori, un altro mondo. L’esodo siriano – dopo quello palestinese e iracheno prima – ha portato nel paese un milione di persone e, i libanesi, si mostrano sempre meno tolleranti rispetto a questa ondata migratoria che, tra l’altro, abbassa radicalmente il prezzo del lavoro. Il problema ovviamente è dato da diversi fattori. Tra questi, immancabili i cosiddetti “caporali” che sfruttano la manodopera siriana per pochi spiccioli al giorno, facendosi pagare a suon di dollari misere baracche dal tetto in lamiera.
Entriamo in una di queste, accompagnati da Miquel e Youssef, il nostro adorabile traduttore tredicenne (o poco più), che oltre all’arabo, parla un francese perfetto. Incastonata tra filari di serre, alla fine di un sentiero polveroso, spunta la piccola casa fatta di mattoni, fango e lamiere: una di quelle affittate a 200 dollari al mese. La famiglia ci accoglie con calore, offrendoci il caffè. All’interno, tra lindi tappeti rossi e cuscini, gonfia il cuore la gioia delle due bambine di fronte ai peluche “mandati” loro dalle figlie di Federica. Il papà non c’è più, è morto in guerra. Il nuovo compagno della mamma, militare siriano, ci racconta la loro storia. Per il futuro sperano di andare in Canada o in Germania.
Togliamo il disturbo, un saluto, ripartiamo. Miquel nonostante sia catalano, conosce le strade del Libano a menadito e con loro, le follie di un traffico senza regole, tra rombi prepotenti, macchine contromano e clacson nervosi. Cerca di scegliere sempre la carreggiata più tranquilla. Arriviamo dunque a Sidone, terra intrisa di Storia e di un “sempre” caratterizzato da ciclici conflitti e intolleranze.
Situata a pochi chilometri dalle Alture del Golan, stretta tra Siria e Israele, dalla notte dei tempi Saida è crocevia di culture. Dalla torre del santuario greco-ortodosso la vista è mozzafiato: a destra i monti che dividono Libano e Siria, più a sinistra il grande campo palestinese: più 60mila persone, nato nel 1948, dicono sia impenetrabile, “un ghetto dove nessuno può entrare” ci spiegano. In un luogo in cui la religione, anzi le religioni, permeano la vita di ogni giorno ed ogni singola azione, la convivenza è difficile, il clima – ci dicono – è teso, oggi più che mai. Sono le dodici, si sovrappongono i richiami dei muezzin da ogni parte della valle, il suono è suggestivo, l’atmosfera quasi surreale.
Ripartiamo per la visita allo Shelter, il “rifugio”, palazzo di due piani che ospita 30 famiglie siriane. Anche qui mille storie, famiglie divise, bambini senza madri, futuro incerto. Rifiuti ovunque, una donna perlustra una borsa abbandonata, una bambola giace a testa in giù tra le sterpaglie… un triciclo giallo straordinariamente intatto viene condotto da un bimbo orgoglioso del suo bolide. “Se solo avessi portato un po’ di giochi di mio figlio…” ripeto ancora una volta tra me e me.
E’ sera, torniamo a Rmeileh. La luce salta e qualcuno spiega che è Israele a razionare la corrente elettrica. Da Aleppo, all’ora di cena, arriva un amico della comunità: ci parla della guerra e delle sue conseguenze. Ci colpisce la storia di quelle famiglie, trovate qualche giorno fa, sotto le macerie: da mesi vivevano lì, nascoste per scappare al conflitto, nell’oscurità e nella convinzione che la guerra e Daesh fossero ancora lì. Storie da raccontare, per non dimenticare.
Mentre scriviamo, siamo in Italia. Il tg racconta di un nuovo raid israeliano a Sud di Damasco. Non c’è pace per queste terre. E il pensiero va a loro, i tanti bambini che abbiamo incontrato.
“Siamo i bambini della Siria e vi chiediamo di fermare la guerra,
perché vogliamo vivere l’infanzia che ci state rubando.
Vogliamo tornare nel nostro paese e giocare nei campi,
svegliarci ogni mattina con il canto degli uccelli e non con i boati delle bombe.
Vogliamo cacciare le farfalle, non essere cacciati dalle bombe.
Vogliamo vedere i bellissimi paesaggi del nostro paese, non i bambini morti nelle nostre strade.
Vogliamo l’odore dei fior non quello del sangue che inonda le nostre città.
Vogliamo ricostruire il nostro paese.
Tornare ai tempi in cui c’era pace, amicizia e amore”.
Scritto dai bambini del progetto Fratelli, Rmeyleh, Libano
by Silvia Zingaropoli
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