Estratto dall’articolo Di Chiara Zappa pubblicato su Mondo e Missione.
È una missione difficile, quella di Nabil Antaki, medico gastroenterologo che dopo lo scoppio del conflitto siriano, dieci anni fa, decise che avrebbe fatto tutto il possibile per portare un conforto a quei civili che la guerra aveva improvvisamente trasformato in vittime: sfollati, feriti, traumatizzati, rimasti senza cibo né acqua. E nacquero i Maristi blu, un gruppo di volontari che, col tempo, avrebbe preso la forma di una vera e propria macchina della solidarietà, forte di 155 operativi e con all’attivo una quindicina di progetti, dalla prima assistenza alla formazione professionale, dal supporto scolastico alla riabilitazione psicologica. […]
Oggi in Siria sono rimasti solo alcuni focolai di conflitto, come la provincia di Idlib e la regione nord-orientale, eppure «la pace è ancora lontana e, paradossalmente, la gente sta addirittura peggio di prima a causa di una crisi economica spaventosa», afferma il medico, che insieme al Fratello George Sabé ha raccontato le sofferenze del suo popolo nel libro Lettere da Aleppo, uscito lo scorso novembre per l’Harmattan Italia. Un allarme confermato dai dati del Programma alimentare mondiale, secondo cui, mentre il Paese conta oltre 400 mila morti e 12 milioni di sfollati, quasi la metà all’estero, il 60% di chi è rimasto non è sicuro di riuscire a mangiare tutti i giorni: il doppio rispetto al 2018. Sono quasi un milione e mezzo i Siriani che non potrebbero sopravvivere senza l’assistenza alimentare delle organizzazioni umanitarie. […]
In questo contesto, l’opera instancabile dei Maristi blu rappresenta una piccola luce nel buio quotidiano di tanti siriani. Come gli anziani, che negli ultimi mesi si sono ritrovati ancora più fragili: «Molti sono soli, perché non hanno famiglia o perché i figli sono scappati dalla guerra, e le loro condizioni sono davvero miserevoli. Per questo abbiamo allestito una cucina in cui alcune nostre volontarie preparano ogni giorno un pasto caldo per 190 anziani bisognosi». Poi sono i ragazzi dalla maglietta blu a distribuire il cibo nelle case, portando anche un sorriso, un po’ di calore umano e un supporto a 360°: «Andando a trovare queste persone, infatti, ci siamo accorti che molte hanno bisogno di qualcuno che si occupi della loro igiene personale, di pulire la casa, di comperare le medicine».
Ma la categoria che ha subito le conseguenze più gravi del conflitto è quella dei bambini, molti dei quali nella loro vita non hanno conosciuto altro che la guerra. Per loro alla povertà e alla carenza formativa – ancora oggi due milioni di piccoli sono tagliati fuori dalla scuola – si aggiunge il rischio di abusi, tra cui i matrimoni precoci, oltre a un trauma difficile da rimarginare. «A fianco dell’assistenza materiale, ci concentriamo sui progetti educativi per i bimbi in età prescolare i cui genitori non possono permettersi un asilo privato – racconta ancora il medico siriano – mentre un nostro team di psicologi e volontari opera con i bambini e gli adolescenti che vivono un disagio psicosociale».
Tra questi, se possibile ancora più vulnerabili sono i ragazzi cresciuti nei campi profughi. Quello di Al Shahba, a 40 km da Aleppo, ospita 125 famiglie curde – 750 persone – fuggite da Afrin dopo l’invasione turca del 2018. «I nostri volontari lo visitano due volte alla settimana, portando pacchi di cibo e prodotti sanitari e organizzando giochi e attività educative per i bambini, mentre sul fronte dell’assistenza medica mettiamo a disposizione un pediatra, una ginecologa e un farmacista». […]
Eppure, nonostante tutto, per il dottor Antaki la guerra non è riuscita a distruggere un modello di convivenza interconfessionale che in Siria rappresentava la normalità: «I miei pazienti sono sempre stati in maggioranza musulmani, così come lo sono oggi al 70% i beneficiari dei nostri progetti. Qui non facciamo differenza, ci sentiamo tutti Siriani e il resto viene in secondo piano. Tra i nostri volontari ci sono diversi musulmani: condividiamo gli stessi valori umani e non abbiamo alcuna difficoltà a lavorare insieme».
L’estremismo, quello che la Siria ha conosciuto in questi anni e che si è portato via anche il fratello maggiore del medico aleppino, ucciso nel 2013 da un gruppo fondamentalista, «è stato importato dall’estero, non fa parte della nostra tradizione. Al contrario, la gente normale ha avuto modo di conoscere e apprezzare l’opera di molte ong e realtà Cristiane che durante il conflitto non hanno mai smesso di portare aiuto a tutti». Una testimonianza più che mai evidente nel caso del dottor Nabil, che, con la sua cittadinanza statunitense (grazie a due figli che vivono da tempo negli Usa), avrebbe potuto lasciare la Siria in qualunque momento e invece, nonostante le insistenze dei familiari, insieme alla moglie, entrambi reduci dal Covid-19 ha deciso di rimanere. […]
“Chiediamo con forza alla comunità internazionale di ascoltare il grido dei siriani, dei bambini che non hanno avuto infanzia, dei giovani che non hanno più sogni. Ci uniamo all’appello delle tante realtà, tra cui le Chiese locali e la Caritas, che premono affinché siano tolte le sanzioni che strangolano il popolo. E poi imploriamo, finalmente, la pace”.