L’altro volto del Paradiso
È possibile cogliere e comprendere appieno determinate situazioni socio-ambientali soltanto quando le si vede con i propri occhi e le si può davvero toccare con mano. Lo statico, algido, schermo di un computer – se pure mi permette di essere collegata costantemente con tutto il mondo – non dà la reale e profonda percezione delle vite altrui. Fare ricerca, leggere e produrre dati, non potrà mai essere equiparabile all’incontro reale con i bambini e le scuole rappresentati da quelle statistiche. È questo che mi ripeto ogni volta che salgo su un aereo che mi porta dall’altra parte del mondo.
E questo è ciò che dicevo a me stessa anche durante il volo che mi ha portato da Roma ad Antananarivo, la capitale del Madagascar. Nonostante l’idea diffusa e superficiale che si ha del Madagascar – distese di sabbia e acque cristalline – il volto reale del Paese è ben distante dalla percezione che ne ha il mondo occidentale. Distante dai luoghi di attrazione turistica si ha coscienza di quanto venga strumentalizzata quell’immagine e di quanto dissimile sia rispetto alla realtà e al vissuto dei suoi abitanti. Il Madagascar è infatti una delle Nazioni più povere al mondo. Nonostante il potenziale produttivo, la vulnerabilità socio-economica degli abitanti è in costante aumento: con un PIL in caduta libera ormai da anni, ripetute crisi politiche e disastri naturali e ambientali, il Paese arretra in termini di sviluppo e di miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Tale flessione è comprovata dal valore dell’indice di sviluppo umano che, per il 2021, è pari a 0,501, fattore che colloca il Paese nella categoria più bassa della scala di riferimento (173° posto su 191 Paesi). L’istruzione in Madagascar rappresenta un bisogno urgente e prioritario poiché solo un bambino su tre completa il ciclo di istruzione Primaria, determinando con ciò una percentuale del 97% di minori intorno ai dieci anni non in grado di leggere e comprendere un testo adatto alla propria età. I bassi tassi di iscrizione e di permanenza a scuola sono dovuti alla diffusa povertà, ai matrimoni precoci (2 ragazze su 5 si sposano prima dei 18 anni), al lavoro minorile (47% dei bambini tra i 5 e i 17 anni sono impiegati in forme di sfruttamento del lavoro), al rapporto studenti-insegnanti di 40:1 (World Bank 2018). Il basso standard educativo è in parte causato, e sicuramente aggravato, anche dallo scarso livello di istruzione del personale preposto all’insegnamento, che si presenta con un tasso del 97% di docenti sprovvisti di un diploma o di qualifiche professionali specifiche (dati UNICEF). Nel Paese è tragicamente diffusa la violenza contro i bambini: nove su dieci sono vittime di disciplina violenta. La povertà estrema ha dato vita a un fenomeno di vasta portata diffuso in tutto il Paese, con netta prevalenza nel Sud: il sesso transazionale. È un fenomeno estremamente comune: tale iniquo scambio sessuo-economico è favorito dalle strutture sociali delle disuguaglianze di genere, le ragazze sono ancora costrette a guadagnare denaro per pagare le rette scolastiche o per sostenere la famiglia.
“Vendere le figlie non è solo una metafora, perché in alcune regioni esistono ancora i “mercati delle donne” (Freedman, Rakotoarindrasata; Randrianasolorivo).
Mi trovo dunque in un posto molto diverso dalla mia consuetudine, immersa in una realtà drammaticamente discorde. È difficile il confronto con la gente e le situazioni di qui: ci si deve immedesimare. Per comprendere, è necessario assimilare, compenetrare e lasciarsi pervadere dalle sensazioni che questi luoghi, persone e situazioni suscitano. Le storie che ci vengono raccontate dalla gente del posto sono tristi, toccanti, eppure i bambini e i giovani riescono a trasmettere gioia e amore col loro entusiasmo per le piccole cose, per i giochi semplici con materiali ludici di recupero, per la felicità di averci tra loro. Ti coinvolgono con la loro spontanea gestualità, ti sommergono.
La cosa che più ogni altra mi affatica durante i miei viaggi non è il volo, né le lunghe ore di scalo o gli infiniti spostamenti in auto per raggiungere villaggi remoti. Mi turba piuttosto il sentirmi come “in torto” a rappresentare, attraverso la oggettiva provenienza geografica, un mondo, quello occidentale, che l’altra metà, quella dei diseredati della terra, immagina come il migliore. Sento il disagio, pur apprezzandone infinitamente contenuti ed intenzioni, di essere in quel momento la persona che arriva da lontano, per la quale la comunità locale per giorni si spende nella preparazione di una accoglienza appropriata, allestendo cerimonie di benvenuto e ingegnandosi a reperire e confezionare piccoli doni. È questo ciò che più tocca il cuore: sapere che in mezzo alla loro complicata vita quotidiana c’è tempo e modo per pensare ad altri esseri umani donando del poco che si possiede, talvolta solo il calore di un sorriso o un festoso ballo di saluto. E ogni volta vorrei essere io su quel palco, vorrei essere io a mettere loro al centro di tutto, come ho fatto sei anni fa scegliendo questo lavoro. Vorrei che non ci fosse un ‘noi’ che arriva da lontano e un ‘loro’ che aspetta. Faccio il lavoro che più ho desiderato fare, una scelta che rinnovo ogni mattina con passione; tuttavia, vorrei svegliarmi un giorno in un mondo in cui il mio lavoro non sia più necessario.
“A qualunque latitudine, facciamo parte della stessa comunità. Ogni uomo, ogni donna, ogni piccolo di questo pianeta, ovunque nasca e viva, ha diritto alla vita e alla dignità. Gli stessi diritti che rivendichiamo per noi appartengono anche a tutti gli altri e le altre. Senza eccezione alcuna. Restiamo umani. Anche quando intorno a noi l’umanità pare si perda”
Vittorio Arrigoni